Introduzione Canti Sciolti
Introduzione
Il poeta che si pone in rapporto con la verità sperimenta gli strumenti di diverse espressioni perché varia é la realtà; dopo avere manifestato artisticamente l’aspirazione alla totalità ritorna in mezzo alla realtà contingente aspra a selvaggia a mette in opera gli strumenti adatti. Cosi é per Marcello Vitale il quale in queste sue ballate esprime in modi adeguati, di popolare crudezza, con espressionismo, l’amaro succo di vicende che si svolgono in ambiente meridionale teatro di morte. La canzone a ballo che nella prima lirica religiosa italiana ingloba i ritmi monodici di laudesi penitenti che si battono e si umiliano per esaltare il Creatore, in cadenze più articolate con personaggi e rispondenze sì da drammatizzare e rappresentare drammaticamente la vicenda, qui fornisce il suo respiro movimentato; esso si risolve, poi, nella ballata romantica che è la veste moderna di ogni animazione interiore o anche esteriormente teatrale.
A queste forma bisogna accostare di quando in quando l’espressionismo che mette in evidenza ciò che per il popolo è più significativo e che in un determinato momento del secondo dopoguerra costituì il rapporto letterario con l’Europa. Intendiamo fare un accostamento a Ugo Betti che in Canzonette – La morte (1932) fa sentire la maledizione che circonvolge l’uomo sopra il quale é un Dio non provvidente: “Dio con l’occhio cieco e fisso – guarda le tenebre e 1’abisso – (… ) Dio con la sua mano ghiaccia – tocca la terra come una faccia – (… ) Ma con gli occhi ciechi e fissi – Dio sta curvo sugli abissi – ove la terra un dì ghiacciata – dalla sua mano sarà scagliata”.
Insomma in questo libro non ci sono le belle ispiratrici, comunicatrici, consolatrici: Camene, Pieridi, Castalie; altri sono gli argomenti. Il poeta è civis di città terrene, di luoghi assolati, di territori in cui la mancanza di lavoro fa nascere funesti alibi (del resto in quei luoghi i sogni si realizzano, probabilmente, dopo la morte: “danziamo con i fanali accesi negli occhi – e i balocchi – vengono a farci il giro – delle ore”). La metafora generale, insistente, è quella di un mondo separato dall’ordinario e normale, di un mondo che sembra in miniatura, rimpicciolito per la somiglianza di gesti a quello cavalleresco con il suo totale impegno di onore. I personaggi sono come dei paladini, quotidiani artigiani del crimine i quali vivono in quanto sparano (pallini, pallettoni, canne mozze, rivoltella: indicano l’uso delle armi e le uccisioni) e appaiono sulla scena come figurine di un mondo rapportato a quello epico-cavalleresco. Vitale traduce in letteratura adeguata, mediterranea, italo-franco-ispana con partecipazione moresca, il mondo della mafia che si raffigura eroismi da codice d’onore, regole rigorose, vendette inevitabili:
uccise Antonio il dì delle sue nozze;
sul petto stramazzò della sua bella,
nella sinistra avea una rivoltella.
I modi di quella letteratura sono traslocati nei territori in cui (meridionali-mediterranei) avevano avuto udienza e appassionamento e noi vediamo crudamente in opera i Maganzesi, i mafiosi militarizzati, diventati imprenditori moderni di morte, contare “i soldi con la calcolatrice, – svelta con la P.trentotto – li accatastava nelle casse da morto”. La visione diventa fortemente satirica ed è rinforzata, nella satira realistica, dal richiamo alla tecnica cinematografica che, spesso, ha riprodotto con tambureggiamenti sonori ironici la disumana meccanicità dell’operare delittuoso: “Il bersaglio fu uno sbaglio – ma adesso che ho sbagliato – sono contento di averlo ammazzato”.
In un paesaggio che nella letteratura e nella realtà è quello campestre dell’Arcadia, dell’idillio, dell’epos cavalleresco, non è la ragione a far prevalere l’incanto ma è il cuore a distillare dolore e odio e gli uomini di giustizia, moderni cavalieri dell’ideale, cadono come Falcone, Montalto, Borsellino e tanti altri. Vitale non celebra le azioni dei giusti, indica che i giusti (grandi memorie da celebrare sempre) soccombono da eroi e il paesaggio desertico appare sotto la sferza del sole, con le tane di serpi; accadimenti diffusi punteggiano l’imminenza degli eventi contro i quali occorre un aiuto universale perché “anche i killer hanno i loro santi”, santi potentissimi. I tocchi leggeri, le notazioni casuali (“mi disse un cantastorie – non è fortuna in terra, solo dolore”) teatralizzano la rappresentazione (tale aspetto drammatico assume la poesia di Vitale) e si susseguono, quindi, le altre scene di morte: la collaboratrice che si uccide per l’uccisione di Borsellino, il mugnaio soppresso, i giornalisti eliminati (“ma la libertà di manifestare il pensiero – giammai potrà andare al cimitero”). La crudezza della morte piomba (“storto – il naso, storta la bocca, – sul selciato ammazzato”) sui moriendi, su tutto ciò che finisce e lo scenario assume sempre più il colore tragico esistenziale: muore il giorno “come veltro spelacchiato”, muore il beato “senza peccato”, muoiono la luce, il tempo, tutti i tempi, in una illusione di “levare sipari” per fare altro mentre tutto è imprevedibile e “le rose le rose eran sempre – più rare”. L’atmosfera che discende è soffocante, non ha “neppure un filo leggero – una stria di speranza nel cielo”.
Quasi inesistenti sono le certezze in questo affascinante libro di poesia; affascinante per le ragioni critiche che presenta, per l’amaro che distilla dalla vita con il coraggio espressionistico di una rappresentazione drammatica e vera.