«Canti sciolti» di Marcello
Vitale Ballate per i morti di 'ndrina e di
mafia
Giuseppe Amoroso
M arcello Vitale, alto
magistrato in Lamezia Terme, è un poeta dall'agguerrito e a volte
raffinatamente sofisticato linguaggio. La sua importante e ormai copiosa
produzione lirica (da Orizzonti, del '65, allo Sguardo dell'uomo, dell'86,
fino a Performance, edita da Campanotto nel '95) si muove fra attenzione
millimetrica ai fatti della realtà di oggi e stravolgimento visionario
che, proiettando il dato concreto in una spirale di vertigine, ne fa
sprizzare schegge, illuminazioni repentine, guizzi raccolti anche
nell'obliquo scatto di una parola. Sovente, nei testi di Vitale, si
spalanca uno scenario di mosse troncate, figure ammiccanti e condotte
d'improvviso sulla soglia di un mistero, luci che scivolano nel fondo buio
o nel magmatico grigiore di una quotidianità insidiosa. S'apre una sfida
dalla quale promana un senso di attesa, non uno sguardo prolungato nella
sua curiosità, bensì una rapida presa di coscienza (o un sospetto?) di un
mondo d'ombra in agguato. Ora con Canti sciolti e ballate per i morti di
'ndrina e di mafia (Pellegrini editore, pp. 87, Lire 18.000) il poeta è –
come scrive Antonio Piromalli nelle illuminanti pagine introduttive –
«civis di città terrene, di luoghi assolati, di territori in cui la
mancanza di lavoro fa nascere funesti alibi». La metafora generale e
insistente – prosegue il prefatore – «è quella di un mondo separato
dall'ordinario e normale, di un mondo che sembra in miniature,
rimpicciolito per la somiglianza di gesti a quello cavalleresco con il suo
totale impegno di onore». A ridurre le proporzioni di questo universo
concorre la scrittura ironizzante, presa nella sfera del suo gioco inteso
a portare i significati alle loro radici, in un percorso stringente,
appagato di sé e dei suoi araldici umori delle sue ellissi e piroette.
Violenti scatti verso il simbolo («Viviamo in epidermide/sul corpo del
drago/dagli eterni piedi deboli»), ripiegamenti su una pensosità dolente
(«Nella stanza mi annoiavo calmo/dentro a una striscia di sole/Non eravamo
più Dei, ma in silenzio/origliavamo polvere»), folgoranti definizioni di
uno spaccato sinistro del reale («La mafia imprenditrice/contava i soldi
con la calcolatrice,/svelta con la P.trentotto/li accatastava nelle casse
da morto»), la sapienziale rilettura parodica dell'epica cavalleresca
("... lei /col suo sorriso mesto e gli occhi/di campestre dama,/io un
giudice/il cavalier servente della donna di cuori"), una morbida
sentenziosità specchiata nella sorpresa di un'alterata visione («Il cuore
racchiude in sé/l'impossibile, fa capriole,/soccombe/non impara mai la
lezione/ La spiegazione è: il cuore/è più della ragione") danno il
diagramma della tensione del libro e una mappa di motivi organizzati in
maniera unitaria, in un quadro-racconto, autobiografico e, insieme,
sigillato in una obiettività che possiede i lineamenti della cronaca
richiamata da un palpito d'assoluto. Se la caratteristica fondamentale è,
certo, la trasparenza del dettato, capace di fermare nella vitrea immagine
pure il gorgo o il pathos più lancinante, la lirica di Vitale trabocca
spesso in una riserva di conoscenze, fa emergere un capitale di cose
segrete, microeventi, allusioni, un regno sommerso che appartiene
all'autore ma anche a tutti noi viaggiatori di dolori e sogni, presi da
una «speranza remota» o «solo sospesi/all'ingresso all'uscita/di una
galleria, di una fantasticheria». Sono le emozioni minime, le percezioni
del «nulla», il veicolo che fa approdare a un orizzonte vasto e che fa
scoprire l'esterno nel suo respiro antico d'infinito: «Mi protendo a
captare/il battito del nulla, il fruscìo della foglia/che cadendo compia
l'imprevista traiettoria/o il ronzìo di una pompa/che sospinga il sangue
greve del mondo». I foschi riti della mafia, gli assurdi codici della
violenza, i complici silenzi, le vendette, l'armamentario infetto di regie
occulte transitano nella silloge con cupi rintocchi, ma non franano nella
sola denuncia civile, nella parola forte, clamorosa della condanna: a
parlare di mafia sono i moduli, la cultura, la visionarietà, la sintesi
linguistica di un poeta che sa di storia e delle sue infinite, talora
indecifrabili corrispondenze (cade Giovanni Falcone «con i suoi cavalieri»
nella «gola di Capaci» come Rolando cadde a Ronsisvalle «con i suoi
paladini/lottando i saracini») e dei canti del passato, delle discese
nell'«oltretomba», dello scudo del sorriso, estrema difesa contro il male.
E allora è un grande visibilio di forme, di paesaggi tagliati per scorci
(chiese, campisanti, viali di città, la natura che reclama la sua
bellezza), di storie vere fasciate di lutto, della pena che «gigantesca
monta nelle case», della madre del poeta la quale, novantenne, «segue
messa solo alla televisione». In un mistilinguismo sferzante e cauto,
ribollente e come pacificato nel canto che sempre l'accompagna, Vitale
scava spazi al pubblico e al privato, raccoglie personali memorie,
traveste di malizia la malinconia, scopre angoli di esistenza quieta,
limpidi nell'esattezza che sfiora l'idillio senza contagi («un
soffio/entra e taglia l'aria/una lanterna fioca riluce/lontana, un
gelo/segreto di fuoco/remoto»).
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